In questo tempo sospeso, riaffiora il ricordo della Pasqua di una volta, quella ingenua, felice e commossa di una comunità solidale.
di Antonio Vecchione
Nel 2001, per i tipi dell’illuminato editore Sellino, io e Orazio Bocciero pubblicammo un libro finalizzato a tramandare la memoria della civiltà contadino – boscaiola – manifatturiera che aveva caratterizzato i costumi di vita della nostra comunità in tutti i suoi aspetti, sociali, culturali e religiosi. Fu una esperienza entusiasmante e gratificante. Il nostro sodalizio, basato su stima e amicizia profonda, si rivelò perfetto per una visione completa della società baianese nelle sue varie componenti. Io, figlio del quartiere popolare dei “Vesuni”, Orazio, più avanti negli anni, alta borghesia baianese, già protagonista culturale e politico di quegli anni cinquanta, animatore della “piazza e del mercato”, luoghi distinti e distanti dal mio centro antico. Unimmo le nostre forze e la nostra passione per raccogliere un’eredità immateriale che oggi mi appare ancora più preziosa e inestimabile, minacciati come siamo da una globalizzazione apatica e superficiale. Una delle pagine più belle di questa ricerca è dedicata alla festa di Pasqua. A distanza di più di cinquant’ anni, riportammo alla luce una delle tradizioni più sentite e commoventi dei riti pasquali, ormai del tutto abbandonata: il canto dell’Ave Maria Dolente (“Matre Mmaria ro gioverì Santo” ossia “Madre Maria del Giovedì Santo). Ne sentii parlare per la prima volta da mia madre, Maria Candela, e da Graziuccia Piacente, amiche legatissime e affezionate, una vita intera vissuta insieme. Ricordavano quei momenti emozionanti nel quartiere dei Vesuni, quando, nel periodo pasquale, quel canto si diffondeva per i vicoli interpretato dalle “scapillate”, giovani donne che, con i capelli sciolti e scompigliati, salivano sui tetti delle case per cantare il dolore della Madonna per la morte del Figlio. Purtroppo ricordavano soltanto i primi versi e ricostruirne la memoria apparve subito un’impresa complicata. Ed ecco l’idea risolutiva: il modo più semplice era quello di ritrovare le protagoniste del canto, le “scapillate” superstiti, ovvero le sorelle Napolitano, della famiglia denominata “’e scimmiotti”, che all’epoca abitavano nel cuore dei Vesuni, in via Nicola Litto. Maria Carmela e Antonietta, due delle sorelle, ci riservarono una gioiosa accoglienza. Furono felicissime di rievocare quegli anni della loro giovinezza e pregiate della nostra attenzione. Ricordavano perfettamente le parole, non solo, ma Antonietta, nonostante l’età non più verde, aveva ancora una voce perfetta, melodiosa, intonata, dolce e struggente, in grado di modulare i sentimenti espressi, dalla dolcezza di una mamma preoccupata per il figlio al dolore finale per la sua morte. Ascoltare i loro ricordi, la melodiosa voce, fu un’esperienza che ci è rimasta nel cuore. Organizzammo vari incontri, arricchiti dalla presenza di altre signore loro coetanee, fino a decidere di programmare una registrazione per lasciare a futura memoria questo poetico pezzo di storia, di Fede e bel canto. Antonio Picciocchi, “o’ russo”, esperto e attrezzato tecnico musicale, si offrì generosamente di curare la registrazione nel suo studio. Per motivi che ancora adesso, a distanza di venti anni, mi sfuggono e che mi addolorarono, Antonietta disertò i vari appuntamenti e, dopo inutili tentativi di ricontattarla per capire, fummo costretti a rinunciare. Una grande delusione. Come rimediare? Mia madre si ricordò di altra protagonista che partecipava al gruppo delle “scapillate”, la signora Giuseppina Castorio, già ottantenne, che si era però trasferita dalla figlia a Maddaloni. Impossibile contattarla non avendo indirizzo né recapito telefonico. Aveva una casa a Baiano, in via Libertà, con una stanza a piano terra. Una sua vicina di casa mi informò che la signora tornava per qualche giorno ogni paio di settimane. Una preziosa informazione, che io sfruttai passando quotidianamente per giorni davanti l’uscio di quella stanza. Puntualmente dopo una quindicina di giorni, ebbi la fortuna di trovarla. Anche lei mi accolse con il garbo e la gentilezza delle persone umili e si aprì subito, palesemente emozionata, coi suoi ricordi. Accettò di buon grado di venire a registrare. Anche Antonio fu subito disponibile e oggi possiamo ascoltare questo struggente canto, che mi emoziona e spero potrà emozionare tutti coloro che lo ascolteranno.
Dai libri: “Baiano, terra nostra, casa nostra”, di Orazio Bocciero e Antonio Vecchione e “’E vesuni” di Antonio Vecchione
PASQUA
Con l’arrivo della primavera e del periodo pasquale ‘o Catafalco si trasformava ed offriva uno spettacolo veramente incomparabile.
Intanto, ci sembra opportuno riferire che la “trista” Quaresima era raffigurata in un fantoccio femminile assolutamente privo di ogni sia pur labile attrattiva del “gentil sesso”, appeso a funicelle tese per le strade del paese, di traverso ad esse, tra due finestre o balconi posti dirimpetto: una vecchia segaligna, cenciosa, sporca, brutta e rugosa (Quaravèsema secca secca) a cavallo d’ una scopa di saggina, con un fazzolettone frusto e stinto sui capelli grigio spento e spelacchiati, uno scialletto risicato e liso sulle spalle e con una gonnella sotto cui pendevano, legate ad un filo di spago, una “scella “ di baccalà, una minuscola bottiglietta di olio, delle cime di rapa ed, infine, una grossa patata rinsecchita, con infitte rade penne di gallina.
Il tubero e le penne erano una sorta di calendario per contare i giorni che mancavano alla Pasqua; più precisamente le penne erano quante le settimane mancanti al compimento del tempo penitenziale e venivano eliminate, una per volta, al trascorrere di ciascuna di esse.
La quaresima, nell’immaginario del popolino, costituiva l’archetipo della bruttezza (riferendosi al fantoccio prima descritto), la rappresentazione dei periodi di miseria e di povertà; sentirsi apostrofare con un “me pare quaravesima senza patana”, costituiva, per una donna, il massimo dell’offesa e dell’umiliazione.
Nei giorni immediatamente precedenti la Pasqua, i Vesuni si animavano in maniera insolita: nell’aria galleggiava un gradevole profumo di dolci e di pizze rustiche (‘e casatielle, ‘e pagnuttune, ‘e ppizze chiene, ‘e tortene ca’ nzogna e cu ll’ove, ‘e mascuttine, ‘e pastiere ‘e maccarune, taralle, tarallucce, ecc.).
Nei cortili le donne si affollavano davanti ai forni comuni in attesa del loro turno per cuocervi le proprie ghiottonerie ed anche per scambiarsene, non senza il segreto scopo di dimostrare di fatto, “sul campo” la propria superiore capacità nel confronto con le altre. I dolci e i rustici citati erano estremamente semplici, sobri, fatti, con ingredienti elementari, poveri.
Tuttavia erano una “festa”: perché iniziava la primavera, la campagna si tingeva di un verde delicato, si delineava il nuovo raccolto, la temperatura si faceva più mite e le giornate più lunghe e luminose e perché caratterizzavano una ricorrenza attesa, giorno dopo giorno, per un intero anno e tenuta a mente per tutto quello a venire.
Spesso le famiglie più semplici e modeste producevano quelle buone, umili cose soprattutto per farne donativo a quelle ricche, cui erano o si ritenevano obbligate. Queste ultime dimostravano, nel ricevere questi doni, il loro status di famiglia “potente e rispettata”.
Intense e sentite e partecipate le cerimonie religiose.
Il giovedì santo, nella Chiesa di S. Apostoli, si teneva la funzione dei “Sepolcri”. Il paese intero si sentiva in obbligo di andare in Chiesa, dove era esposto il Corpo di Cristo, davanti al quale si tratteneva in religioso silenzio. La Chiesa cambiava volto: un centinaio di piantine di grano giallo dorato, simbolo del prodigio annuale del risveglio della Primavera, adornavano il sepolcro di Cristo, quasi a simboleggiare il mistero della Morte di Cristo e della Sua Risurrezione.
I vasi erano preparati e decorati dalle donne più sensibili. Cominciavano quaranta giorni prima, piantando i semi di grano nei vasi riempiti di segatura, per continuare col lavoro tutti i giorni, innaffiandoli e tenendoli rigorosamente al buio.
Il venerdì Santo le funzioni diventavano commoventi.
Nella Chiesa di S. Croce, di primo pomeriggio, le tre ore di agonia, con meditazione, preghiere e canti (si elevava al Signore il canto “madre maria ro giovedì santo).
Poi, nel tardo pomeriggio, usciva la suggestiva Processione di Cristo Morto, la cui tradizione si è persa negli anni ’60. Indossati i costumi d’epoca, un gran numero di fedeli rendevano spettacolare la funzione, impersonando la Madre di Cristo, Maria Maddalena, gli angeli, e gli arcangeli, soldati romani ed anche quelli che la Chiesa ha sempre considerato i cattivi: i giudei (‘e giurei).
Non mancava l’accompagnamento dei preti di Baiano, sempre numerosi, e dietro il Corpo di Cristo, seguivano le sei scapillate, immagine plastica del dolore dell’umanità per la morte di Cristo.
Il Sabato Santo, a mezzogiorno, si scioglievano le Campane, che suonavano a Gloria per la Risurrezione di Cristo e subito dopo si celebrava la S. Messa.
Dopo la Domenica di Pasqua, la festa continuava con le scampagnate del martedì, alla collina di Gesù e Maria, e del mercoledì, a Fontana Vecchia. Due gite attese e festose. L’atmosfera era serena, rilassata: una visita alle due chiesette per onorare la Madonna ed un giro tra le “bancarelle” di ambulanti, sempre presenti, era doverosa. Poi ci si affrettava a cercare il posto dove fermarsi, per consumare, sdraiati sui prati o seduti sui muriccioli a secco della verde collina, tra gli uliveti, tutte le ghiottonerie preparate per Pasqua: casatielle, pagnuttune, tortani ca’ nzogna e cu’ ll’ove, pastiere e’ maccarune, taralle, e’ mascuttine. La gita era attesa soprattutto dai giovani e dai fidanzati in particolare. Queste scampagnate costituivano una ghiotta occasione per incontrarsi senza provocare pettegolezzi o destare sospetti. La musica di tammorre, castagnette e balli frenetici, come le tarantelle, coinvolgevano e appassionavano il pubblico presente, che aveva voglia di divertirsi ed essere allegro. A Fontana Vecchia, fino agli anni 30, si teneva la spettacolare manifestazione del “volo degli angeli”, tradizione interrotta e mai più ripresa (bambini in costume da angioletti, sospesi nel vuoto, agganciati a una lunga corda, scivolavano dal terrazzo delle case fino al centro del piazzale). La festa di Gesù e Maria era più partecipata e sentita; un comitato organizzava anche spettacoli e non mancava mai uno dei personaggi più apprezzati dell’epoca, “‘o pazzariello”, che divertiva grandi e bambini. La partecipazione entusiasta continuava fino a sera, in piazza a Baiano, con la seconda parte dello spettacolo.